M., viaggio nel viaggio
Mi sarebbe piaciuto Ritornare e Rivedermi nei i tuoi occhi.
Rivedermi e Raccontare a te tutto quello che mi è successo, tutto quello che mi ha travolto, di farti conoscere mia moglie.
Degli innumerevoli chilometri percorsi, della gente conosciuta, delle difficoltà e del deserto.
Tanto tempo è trascorso, o forse non è mai del tutto passato.
Il mio viaggio inizia il giorno in cui non ho più visto i tuoi occhi, ma sono sempre rimasti, e tutt’ora lo sono, parte di me.
Jataba
Sono partito nel Settembre 2011.
Sono partito con un amico. Vedevo che molti ragazzi lasciavano il Gambia o mi giungevano racconti di amici già partiti e riusciti ad arrivare in questa terra lontana chiamata Europa.
Nella mia Terra, non ci sono molte possibilità per noi giovani: o si trovano dei lavoretti saltuari con misere paghe o il destino della maggior parte di noi ragazzi è di diventare un militare.
Il lavoro, nonostante aiutassi mio padre a vendere benzina non mi permetteva di sostenere la famiglia.
Spinto quindi da una gran voglia di cambiamento per la mia vita e quella della mia famiglia ho deciso di partire per la Libia da dove si poteva arrivare in Europa.
Sapevo che non sarebbe stato un viaggio facile, ma ero così sicuro della mia scelta, così frustrato e stanco della mia vita che anche nei momenti più bui e difficili del mio viaggio non mi sono mai guardato indietro, non ho mai pensato di tornare.
Una mattina quindi ti ho salutata e per farti stare tranquilla ho detto che partivo solo per pochi giorni anche se in verità sapevo già fin dall’inizio che non ci saremmo visti per molto tempo.
Sono partito con uno zaino, qualche vestito e un po’ di cibo. Non avevo documenti se non la tessera elettorale, almeno c’era un nome e una foto poiché avevo perso la carta d’identità ed ero in attesa di avere il passaporto.
Avevo tagliato le suole delle scarpe e nascosto all’interno un po’ di soldi perché da quello che si raccontava, alle frontiere, durante i controlli, o lungo il viaggio, poteva essere molto pericoloso avere qualsiasi cosa, figuriamoci dei soldi!
Era meglio partire con il minimo necessario, anche senza cellulare. Sono partito con il mio amico dalla mia città natale Kiang Jataba in Gambia e ho raggiunto il Senegal a bordo di una carrozza trainata da un cavallo.
Kayes
Arrivati in Senegal abbiamo preso un autobus e siamo arrivati alla zona di frontiera con il Mali, nel circondario di Kayes. Qui i militari ci hanno fermato, hanno controllato l’autobus e ci hanno chiesto i documenti. Chi li aveva, per andare avanti doveva pagare una somma abbastanza alta; chi non li aveva, doveva pagare il doppio. Quelli che si sono rifiutati di pagare o hanno provato a scappare sono stati picchiati e portati in prigione.
Io ho pagato il doppio poiché non avevo i documenti, e ci hanno lasciato passare.
Bamako
Abbiamo proceduto quindi con l’autobus verso la capitale del Mali, Bamako dove siamo stati truffati da una falsa agenzia di autobus.
Volevamo affittarne uno ma dopo aver raccolto i soldi di tutti sono spariti senza accompagnarci.
A Bamako il mio amico ed io ci siamo divisi perché lui ha deciso di proseguire verso il Burkina Faso con l’autobus visto che aveva più soldi di me.
Io, non avendo molti soldi, insieme ad altri compagni di viaggio abbiamo preso dei motorini verso Mopti.
Da Mopti a Gao
Io, non avendo molti soldi, insieme ad altri compagni di viaggio abbiamo preso dei motorini verso Mopti. Da Mopti a Gao verso la Libia sarebbe stato più veloce invece di andare in Burkina Faso e poi in Libia passando dal Niger.
Solo una volta arrivato a Mopti sono riuscito a mettermi in contatto con la mia famiglia per dirgli che non sarei tornato tanto presto.
Qui sono rimasto 3 settimane insieme ad un ragazzo appena conosciuto perché avevo finito i soldi.
Insieme a lui mi sono indebitato con i “connection man” cioè i trafficanti di migranti che hanno in mano gli affitti delle stanze (connection house) e ti “aiutano” a procedere nel tragitto sotto pagamento.
Per riuscire a pagarli quindi abbiamo lavorato per 2 settimane come falegnami.
Abbiamo fatto un po’ di soldi e saldato i nostri debiti.
Dalla città di Mopti ho aspettato di andare a Gao per via della guerra, ma i “connection man’’, essendo a conoscenza degli sviluppi, ci dissero che la situazione si era tranquillizzata e quindi dopo poco ci hanno accompagnato in macchina fino a Gao. Gao è una delle città del nord del Mali sotto il controllo dei Tuareg (integralisti islamici) ribelli. Abbiamo preso una macchina verso l’Algeria ma durante il viaggio siamo stati fermati da un gruppo di Tuareg che ci hanno fatto scendere e razziato di ogni cosa. Abbiamo dato tutto quello che avevamo, cioè quasi nulla. Ma non si sono fidati di noi perché pensavano che fossimo delle “spie” e ci hanno portato in una prigione di Gao. Lì siamo stati per 3 mesi prima che arrivasse il loro capo che era l’unico che parlava inglese. Il mio amico piangeva spesso ed io mi arrabbiavo e sbattevo i pugni sulle porte per dire che dovevamo andare, che non avevamo fatto niente. Loro si arrabbiavano e certe volte è capitato che ci picchiassero. Finalmente però un giorno è arrivato il loro capo e siamo riusciti a fargli capire che non eravamo spie ma “semplici migranti” in viaggio verso la Libia. Fortunatamente dopo una lunga discussione ci ha creduto e il giorno dopo ci hanno rilasciati. Da Gao ci hanno accompagnato in una autostazione vicino, dove ho incontrato un ragazzo del luogo che aiutava gli autisti a procacciarsi clienti.
Niamey
Il giorno dopo abbiamo preso un auto e siamo andati a Niamey (capitale del Niger) prima di essere fermati dai soldati alla frontiera tra Niger e Mali.
Ci hanno lasciato passare poiché l’autista ha spiegato loro la nostra situazione, che i ribelli ci avevano preso tutto e che eravamo in viaggio.
Arrivati a Niamey, senza soldi ne cellulari ci siamo stati per circa 1 mese e anche qui abbiamo cercato lavoro. La ricerca è stata molto difficile, però alla fine ne abbiamo trovato uno come muratore, ci hanno pagato e una sera abbiamo comprato il credito per chiamare i familiari e per dire a loro dove ci trovavamo, che stavamo bene. Si sono tranquillizzati, e dopo poco al mio amico sono arrivati un po’ di soldi dai suoi genitori. Ne aveva più di me, quindi gli ho proposto di andare avanti verso Agadez ma lui ha rifiutato dicendomi che mi avrebbe aspettato per continuare il viaggio insieme.
Lavorai quindi ancora un po’ e giunse l’ora di partire.
Agadez
Sono partito quindi con altri ragazzi e dopo 3 giorni siamo arrivati ad Agadez, lì ho contattato il mio amico dicendo che era tutto tranquillo, mi ha detto che sarebbe partito ma alla fine ha deciso di tornare indietro. Da quel momento in poi non ci siamo più visti ne sentiti.
Sono rimasto ad Agadez per 1 mese alloggiando in una “connection house’’. In questa città, dal momento che non sono mai riuscito a trovare un lavoro, con i pochi soldi che mi erano rimasti ho fatto scorta al mercato di pane e sugo che cucinavo durante la notte e rivendevo in strada alla mattina. Dopo essere riuscito a fare un po’ di soldi sono andato in autostazione e ho pagato il biglietto dell’autobus senza pagare i “connection man’’.
La sera siamo partiti verso Arlit.
Viaggio Niger – Algeria
Da Arlit abbiamo preso un taxi verso Assamakka e qui abbiamo pagato i connection man che con 2 pick-up (eravamo una decina di persone) ci hanno accompagnato lungo il deserto per portarci a Tamanrasset.
Durante la notte però ci hanno lasciato a piedi dicendo che sarebbero tornati ma non abbiamo visto più nessuno.
Abbiamo incominciato quindi a camminare nel deserto fino a vedere delle luci in lontananza, era la città di Tamanrasset. Il giorno dopo riuscimmo ad entrare.
A Tamanrasset sono rimasto 3 mesi perché trovai lavoro sempre come muratore.
Raccolti un po’di soldi sono andato verso Adrar e poi in Ouargla, dove ho lavorato come muratore e dove vivevamo in una grande fabbrica abbandonata.
Dopodiché, con un autobus siamo andati a Ghardaia e poi nella città di Orano fino a Maghnia.
Nador
Per sopravvivere, andavamo a cercare da mangiare nella città Nador, bussavamo alle porte delle case per elemosinare qualsiasi cosa.
Spesso gli abitanti ci aiutavano dandoci delle coperte, dei vestiti e del cibo. Per l’acqua c’era una sorgente di acqua gelida vicino al nostro campo.
Lì andavamo a prendere l’acqua da scaldare per lavarci.
Melilla
La barriera separa il Marocco dalle due città autonome spagnole di Ceuta e Melilla che distano tra loro 300 km circa. Le due barriere che circondano lungo tutto il loro perimetro le città di Melilla e Ceuta sono state progettate e costruite dalla Spagna alla fine degli anni ’90 per impedire l’immigrazione clandestina. Per questo progetto sono stati stanziati milioni di euro dall’Unione Europea che collabora con il governo marocchino per arginare il fenomeno dei migranti. Non si può avere un’idea ben definita di quanta corruzione e mafia ci sia dietro gli accordi tra Europa e Marocco. La prima, deve in qualche modo difendere la sua reputazione di una organizzazione basata sui ‘’famosi e saldi’’ principi morali occidentali di uguaglianza, pace, diritti e democrazia per tutti, pagando però molti soldi e servendosi dei militari e della polizia marocchina a cui tocca invece fare “il lavoro sporco” di respingimento affinché blocchino con qualsiasi mezzo e modalità l’entrata di immigrati in Spagna e quindi in Europa. Il governo marocchino invece usa il ricatto per ricevere sempre più soldi dall’Ue. I migranti si trovano quindi in un limbo, in balia degli umori e bisogni degli uni e degli altri. Pezze umane, fantocci, in mano ai grandi potenti. Se il governo marocchino ad esempio aveva bisogno di più soldi allora andava ad allentare le difese della barriera e ci lasciava passare con più facilità, se però, alcuni di noi riuscivano a fare il “salto” e a cadere in territorio spagnolo ad aspettarci comunque c’era la guardia civile spagnola che ci ridava ai marocchini. Le cose per noi rimanevano in ogni caso immutate: solo sangue, dolore, morti e disperazione.
Mount Gourougou
Siamo arrivati al monte Gourougou vicino a Melilla dove i migranti trovano riparo e provano a superare la barriera tra il Marocco e la Spagna. Ci siamo stati per circa 2 anni.
Il monte ha un terreno molto secco e roccioso. Spesso, durante le incursioni notturne che organizzavamo verso la barriera, ho visto molte persone che hanno perso la vita correndo come pazzi e inciampando nelle rocce che affioravano dal terreno, oppure, durante le retate della polizia marocchina che avvenivano regolarmente, per cercarci e “punirci” se avevamo attaccato molto. Quando accadeva, scappavamo in massa nelle parti più impervie ed alte del monte, trovavamo riparo in pertugi anche molto piccoli dentro alle rocce.
Se trovavano le nostre cose bruciavano tutto. Nelle migliori, delle volte ci portavano nella capitale Rabat se no erano solo botte.
Il monte era un accampamento a cielo aperto, diviso per “nazionalità”. C’era la zona dei Maliani e Camerunesi (tutti insieme erano i più numerosi, circa 2000 persone), dei Nigeriani, dei Guineani, degli Ivoriani, dei Guineensi e infine di noi Gambiani che per fare numero eravamo vicino ai Senegalesi e insieme riuscivamo ad arrivare a 300 persone circa.
Ovunque c’erano tende costruite con dei teli di plastica. Erano tende molto basse sotto le quali si poteva stare solo sdraiati.
Gli attacchi dei Maliani e Camerunesi (Francofoni) erano diversi dai nostri poiché loro erano moltissimi. Iniziavano ad urlare dal loro campo-base fino alla barriere portando con loro delle scale fatte a mano, scendevano il monte in modo disordinato e caotico cosicché la polizia e la guardia civile aveva tutto il tempo per prepararsi e respingerli. Quando scendevano, nella foresta c’era un gran frastuono, le urla ripetute di continuo e in modo scandito, come uno slogan “oggi dobbiamo entrare! morire o dentro!’’. Un rumore indescrivibile, che non dimenticherò mai, la terra tremava da quanti correvano giù per la montagna, tutto attorno solo caos, urla e disperazione.
Una volta attaccarono 3000 persone e ne entrarono mille, dalla loro moltitudine riuscirono a piegare le reti di metallo. Quel giorno, l’attacco così numeroso colse di sorpresa sia la guardia civile spagnola che la polizia marocchina. La loro richiesta di rinforzi non bastò a fermare le innumerevoli persone che correvano senza alcun indugio, tutti insieme, verso la barriera. Lo Chef della polizia marocchina “è diventato pazzo’’ tanto da investire con la macchina molti ragazzi, ci sono stati molti feriti e parecchi morti.
Noi Gambiani (Anglofoni) non volevamo che altri si accorpassero nel nostro attacco perché avevamo un metodo diverso dal loro appunto. Il loro metodo, visto che erano tanti, era basato sulla forza, mentre il nostro era più ragionato e “cauto” poiché che eravamo molti meno. Una o due volte al mese ci organizzavamo per provare a entrare a Melilla ma era molto difficile riuscirci. Alcuni, ogni tanto, avevano fortuna e riuscivano ad arrampicarsi sulle grate, saltare da 7 metri di altezza e a correre verso Melilla. Molti altri invece rimanevano feriti o morivano, colpiti dai poliziotti che ci lanciavano sassi e bastoni per farci cadere a terra o ci sparavano con i fucili a salve. Partivamo di solito durante la notte dalla nostra base sul monte Gourougou. Per attaccare ci disponevamo in una lunga fila, (fino a 300 persone) uno dietro l’altro discendevamo chinati le rocciose pendici del monte, piano piano. Nessuno osava parlare o fare qualsiasi genere di rumore tutti noi vestivamo con colori scuri per nasconderci nell’oscurità della foresta e della notte. Arrivati vicino alla strada, se passava qualche macchina e venivamo illuminati ci sdraiavamo tutti a terra così che nessuno ci poteva vedere. Poi qualcuno di noi andava avanti a controllare quale era la zona al momento meno controllata e quindi più accessibile. Una volta tornato e avendo definito il punto di attacco la “vedetta” ci indicava il posto dove dirigerci e andava dall’ultimo della fila. Quando arrivava al termine della fila era il momento di cambiare la nostra disposizione e ci schieravamo in modo parallelo alla barriera. Allora ci alzavamo insieme urlando per farci coraggio “bussa” e incominciavamo a correre tutti insieme verso la barriera. Iniziavamo quindi a salire le grate arrampicandoci e provocandoci dei tagli e delle ferite per via del filo spinato. Dovevamo superare le tre barriere, bisognava quindi salire e scendere per 6 volte. Di là dalle grate c’era la guardia civile spagnola armata di fucili a salve e con tanti cani.
Melilla
Se eri fortunato e riuscivi a superare tutte e tre le grate eri a Melilla e dovevi cominciare a correre e non farti prendere dalla guardia civile spagnola che se no ti avrebbe fermato, picchiato e riportato oltre la barriera alla polizia marocchina. Se però, dopo tutto questo, riuscivi a scappare dalle guardia civile, avevi superato il livello. Avevi vinto. Le strade di Melilla si riempivano di migranti urlanti, festosi ma stremati perché ce l’avevano fatta. Erano arrivati nella “Accogliente Europa”. Si dirigevano al centro accoglienza di Melilla dove potevano fare domanda di asilo. Io non sono mai stato tra questi fortunati, ho provato molte volte ad entrare. Un giorno sono riuscito a scavalcare tutte e tre le barriere ma cercando di scendere dalla terza la guardia civile che era a terra mi ha incominciato ad urlare “descendez! descendez!”. Ed io rispondevo che no, non volevo scendere. Poi mi ha puntato il fucile, non pensavo avrebbe sparato e invece il colpo partì. Mi ha sparato prima al collo e ha continuato a urlarmi “descendez!” ma io sono rimasto lassù dolorante e a penzoloni tenendomi con un solo braccio avvinghiato alla rete. Allora ha ricaricato il fucile e mi ha colpito alla pancia, a quel punto non sono riuscito più a tenermi alla grata e mi sono lasciato andare da 7 metri di altezza. Sono caduto a terra, uno di loro mi è piombato addosso, sono riuscito a scappargli tra le gambe e poi ho incominciato a correre con le ultime forze che avevo, ma avevo troppo male ovunque. Nel correre la zip della mia felpa si è aperta e una manica quindi si è tolta. Due delle 5 guardie spagnole che mi stavano seguendo quindi sono riuscite a fermarmi tirandomi per la manica che si era sfilata e mi hanno atterrato alle spalle. Mi hanno immobilizzato tenendomi insieme le ginocchia sul terreno roccioso e bloccato le mani. Come se non bastasse, uno di loro ha tirato fuori dalla tasca un tirapugni e ha incominciato a picchiarmi sulla testa che ha incominciato a sanguinare. Dopodiché mi hanno trascinato al di là della barriera lasciandomi ai poliziotti marocchini che mi hanno colpito ripetute volte con i bastoni fino a rompermi la gamba.
Viaggio Melilla – Libia
Poi mi hanno portato alla frontiera tra Marocco e Algeria in un paese vicino ad Oujda. Lì ho trovato riparo in una veranda di una casa abbandonata e gli abitanti del villaggio mi hanno aiutato portandomi medicine e curandomi le ferite che avevo su tutto il corpo. La gamba mi faceva molto male. Ma ho resistito. Sono rimasto lì per un po’ di tempo, ricordo che faceva molto freddo e accendevo spesso il fuoco per scaldarmi. Quando sono stato un po’ meglio, con l’aiuto di due bastoni ho iniziato a camminare di nuovo verso il monte Guorougou. Dopo un giorno di viaggio sono arrivato al monte ma visto le mie condizioni non riuscivo a risalire le sue pendici. Quindi, vedendo alcuni ragazzi che passavano, ho chiesto loro di avvisare i miei compagni gambiani affinché mi aiutassero a
risalire la montagna. Sono arrivati a soccorrermi poco dopo, e ricordo che sono rimasti molto stupiti alla mia vista e contenti del fatto che fossi ancora vivo. Arrivato al nostro accampamento avevo il ginocchio molto gonfio e per un mese non sono riuscito a camminare. Anche la polizia, quando faceva le sue solite retate, mi trovava da solo e non mi faceva niente se non sbeffeggiarmi del fatto che fossi ancora vivo e del perché non tornavo al mio paese. Se stavi male o eri ferito non c’era problema per loro, ti lasciavano stare, poiché non riuscivi a correre ed arrampicarti sulle barriere, quindi non avresti creato nessun problema. I problemi si presentavano solo se provavi a oltrepassare la barriera poiché l’Europa pagava la polizia marocchina per vigilare il confine.
Ricordo molto bene le parole dell’agente marocchino che mi ritrovò all’accampamento: “Se voi volete stare qua non c’è problema, se invece andate là ci fate fare brutta figura perché sembra che non stiamo lavorando”.
Dopo il mio ritorno sul monte Gourougou e dopo avere passato un mese bloccato all’accampamento per il ginocchio rotto sono passati altri 5 mesi circa. Nel frattempo abbiamo tentato molti altri attacchi per entrare a Melilla, ma ormai mi ero stancato della situazione. Era assai difficile continuare a sopravvivere in quelle condizioni e davvero molto pericoloso cercare di varcare la barriera.
Decisi quindi di lasciare il monte e tornare indietro, di andare in Libia. Quindi ho ripercorso al contrario il tragitto: sono andato in autobus a Oudja, poi Maghnia, Orano, Ghardaia e Ouargla. Da Ouargla in macchina verso In Aménas, Debdeb, Ghademes fino a Tripoli.
Tripoli
Arrivato a Tripoli ho cercato subito da lavorare per riuscire a pagare il viaggio via mare.
Ci sono stato un mese ed è stato molto difficile e pericoloso perché c’era la guerra tra i militari Libici e i ribelli.
Mi sono ritrovato spesso in situazioni di pericolo tra i due schieramenti. Uscivi di casa ma non sapevi se saresti riuscito a tornare. Ho abitato anche lì in una “connection house’’.
Una notte hanno deciso che saremo partiti, ci hanno detto che saremmo partiti in 75 e invece alla fine eravamo 120 persone. Ci sono venuti a prendere in città con le macchine, ci hanno chiamato per nome e portati sulla spiaggia. Qua abbiamo gonfiato il gommone. I trafficanti sono furbi, non sono venuti con noi. Cercano tra i migranti chi può guidare il gommone e ci insegnano ad usare il GPS.
Io ho pagato “solo” 700 euro perché la mia permanenza in città è stata abbastanza lunga e mi conoscevano “bene”. Molti invece hanno pagato fino a 1000 euro.
Siamo partiti quindi di notte e la sera dopo il gommone si è incominciato a sgonfiare. Il mio primo viaggio si può dire che finì quella mattina in cui la
guardia costiera italiana dopo averci avvistato e soccorso ci ha lasciato al porto di Salerno.
Salerno
Siamo arrivati a Salerno nel Settembre 2014, ci hanno visitato, abbiamo mangiato e poi ci hanno chiamato per nome e diviso su diversi pullman.
Bologna
Alla mia famiglia,
ai miei fratelli,
agli amici rimasti a Casa e a tutti quelli sparsi per la grande Terra.
A tutte le persone in viaggio,
a quelle già arrivate e a quelle che stanno continuando,
ad ogni migrante del passato e del presente,
di qualsiasi volontà e di ogni circostanza,
al viaggio,
alla libertà di ogni uomo,
alla terra senza barriere.
Bologna / Viaggio nel viaggio
Il mio pullman è arrivato a Bologna, al centro di accoglienza in via Mattei.
Appena arrivato non conoscevo ovviamente né la lingua né la città. Gran parte della giornata la trascorrevo in giro, dove ho conosciuto moltissime persone ed altri ragazzi che come me erano arrivati dopo il lungo viaggio. Ricordo bene però che un giorno, girando in zona Sant’Orsola ho visto molta gente in tenuta da running che andava tutta verso una direzione. Incuriosito, visto che sono un ragazzo sportivo, li ho seguiti e mi sono ritrovato davanti a un grande cancello e sono entrato in un grande parco, i Giardini Margherita. Sono rimasto subito colpito dal verde dei prati e degli alberi, dal laghetto, dalle tante persone che lo frequentavano.
Mi sembrava un’isola felice. Questo parco è stato il luogo in cui ho visto per la prima volta quella che sarebbe stata mia moglie.
Sono stato in via Mattei un mese poi ci hanno spostato in un hotel dove siamo stati una settimana. Dopodiché ci hanno portato in una comunità per minori dove sono rimasto per 1 anno e sette mesi. Nel frattempo, ho studiato per avere la terza media e conseguito il diploma al CEFAL come elettricista. Mi hanno trovato un tirocinio come magazziniere ma a un certo punto la mia permanenza presso la comunità dovette finire perché ormai risultavo maggiorenne. Quindi sono andato in una comunità dove bisognava pagare un piccolo affitto, il tirocinio però finì e il lavoro non andò avanti.
Quindi non sono riuscito più a pagare l’affitto e ho lasciato la comunità.
Il giorno dopo, insieme ad altri amici ho avuto un problema con la polizia. Hanno fatto una retata in un parco durante una festa con moltissime persone. Hanno preso gente a caso e senza motivazioni portato in questura. Io sono stato uno di quelli.
Avendo ricevuto l’ordine di stare lontano da Bologna per un certo periodo, sono stato a Sasso Marconi dove c’era un’amica di Sonko (un caro amico con cui ho trascorso il periodo sui monti Gourougou e con il quale poi abbiamo fatto parte della strada verso la Libia ritrovandoci a Bologna) che ci ha ospitato per un po’ di tempo. Dopo un po’ di tempo siamo tornati a Bologna, accampandoci in un parco a Casalecchio dove ci hanno sgomberato e poi tramite amici ho trovato un posto dove dormire presso un associazione di Bologna. Anche qui però la situazione è stata temporanea e seguendo altri amici siamo andati in un casolare abbandonato in via Stalingrado. Dopodiché, mia moglie è riuscita a trovare una stanza in affitto. In seguito, abbiamo saputo che il casolare di via Stalingrado era stato sgomberato e mesi dopo, era andato a fuoco.
Con molta fatica, durante gli anni, sono riuscito a trovare diversi lavori con le Agenzie per il lavoro.
Bologna / Il matrimonio
Ci siamo conosciuti in estate, durante un Festival di Culture e Musica dal mondo.
Mi ricordo che ogni sera mi ritrovavo lì con i miei amici con la speranza di vederla e parlarci.
Da quel periodo, dal 2014 siamo sempre rimasti “vicino’’, lei mi ha sempre aiutato in qualunque situazione io fossi e ha sempre cercato delle soluzioni per me.
Con lei ho iniziato un progetto musicale, facciamo dei dj-set di black music (hip hop-reggae-dance hall) coinvolgendo anche altri ragazzi che vogliono cantare. Abbiamo suonato in diverse occasioni e feste in cui si sono sempre create delle belle situazioni.
Bologna_2022
Partire dalle esperienze traumatiche di chi ha sofferto a Monte Sole per mettersi in ascolto delle vicine memorie e dei racconti lontani che le persone migranti portano con sé.
Vai al racconto di Anna Rosa ed esplora la sua storia.